PiP - Scritti vari di Pippo Pappalardo (tratti dalla Pagina ACAF di FaceBook)



Scrivi troppo! Ogni tanto Pippo me lo dice per richiamarmi all’ordine. Arriva puntuale una sua telefonata per correggere imprecisioni che rileva o mi fa notare che molte questioni sollevate sono vecchie come il cucco. Dopo esserci dilungati sul merito del pretesto, dopo poco si deraglia per trattare argomenti diversi. Ci si aggiorna sulle reciproche attualità locali, si scambiano punti di vista. Mi aggiorna sulle tante attività a cui sta lavorando, degli incontri e prefazioni a libri che ha in cantiere; mi racconta aneddoti e di eventi che si svolgono all’ACAF. Segnalandomi Daniele Vita, recente ospite in associazione, parlandomi di un suo commento al riguardo. Sono andato a cercarlo nella pagina web dell'ACAF, senza trovarlo. Ho poi scoperto che si trovava fra i commenti postati nella pagina Facebook dell’ACAF. Di suoi ne ho trovato anche tanti altri, quasi sempre corrispondenti a specifici eventi. Sempre interessanti. I piu' recenti li ho raggruppati di seguito, per rilanciarli e renderli fruibili agli appassionati di fotografia, magari estimatori di Pippo e anche a chi segue i post di questo "zibaldone-blog".

Buona luce a tutti!
© Essec

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Scritti di Pippo Pappalardo (tratti dalla Pagina ACAF di FaceBook)

DANIELE VITA ovvero “RACCOGLIERE LA POESIA”
Con fiuto, curiosità, sagacia e intelligenza, il “nostro” Giuseppe Nastasi va confezionando una collana di eccellenze fotografiche che, poi, convengono presso la nostra sede. Grazie al suo lavoro, il numero degli ospiti che son venuti a trovarci aumenta sempre più, rendendo qualificata e qualificante l’offerta a disposizione dei soci (e continuando, peraltro, nel solco di una consolidata tradizione). Da ultimo, abbiamo avuto la presenza di Daniele Vita. La sua testimonianza, la sua opera e, ancor più, la sua giovinezza (eppure ha 50 anni) e simpatia, ci hanno coinvolto, riportandoci verso la comune passione fotografica, liberandola, almeno per una sera, dalle futili tentazioni, dalle ricerche ambigue se non sbagliate, dalle fumisterie, dalle inutili accademie. Riflettendo sulle sue immagini e sulle sue parole abbiamo compreso tanto della sua e della nostra passione fotografica, nonché le ragioni di uno stile, di una poetica e, conseguentemente, delle sue scelte tematiche; circostanze tutte che, guarda caso, lo hanno fatto apprezzare nel vasto arcipelago della fotografia italiana. Di lui parla bene il mondo foto amatoriale, quello accademico e quello professionale. Ne parla bene per un atteggiamento culturale esemplare: nessun rifiuto di quella fotografia con la quale siamo cresciuti, tanta disponibilità verso una ricerca capace di confrontarsi col nuovo prima ancora che col moderno ed inoltre tanta attenzione verso quel mondo che ti cammina accanto, che ti sta vicino nel rinvenimento, nella formulazione, nell’avventura di una visione fresca e diversa. Conosciamo il suo coraggioso tentativo di riprendere il grande tema della “festa popolare” e la volontà di restituirlo alla “Festa”. Non è stata un’impresa da poco: ha rivisto, infatti, in quelle espressioni, assai spesso accusate di folclorismo se non proprio di fanatismo, il volto degli uomini e delle loro vicende. Ha formulato immagini come domande, interrogativi come meditazioni visive, costruendo percorsi/sequenze fotografiche come proposte documentative e narrative di un nuovo modo di intendere il reportage. “Dove andate? Fermatevi, parliamo?” - chiede il nostro Daniele - “alle immagini incontrate; io sono qua, vi aspetto; manifestatevi”. Ed ecco allora rivelarsi il senso riposto del fotografare del nostro Autore; un senso che affida all’incontro, alla presenza, alla manifestazione dell’altro e dell’altrove, la necessità di postulare immagini e formularle. Il vecchio Benedetto Croce sosteneva: “la fotografia non può comprendere il gesto artistico perché non muove da un’impressione, non “metabolizza” un’emozione, non si risolve in rappresentazione e non cerca la condivisione” (sic!). Il nostro filosofo non aveva guardato i “bagnanti”, le “ntuppatedde” di Daniele. Se li avesse minimamente guardato si sarebbe posto delle domande. E di che genere sarebbero state? E perché, caro Benedetto, ti sarebbero rimaste in mente? forse perché ti intrigavano? ti emozionavano? ti coinvolgevano? magari, ti innamoravano? Il nostro amico ci confida che la qualità, il valore delle sue immagini si rivela dalle domande che ci poniamo su di esse. D’accordo, ed allora? Ecco, allora, il suggerimento di Daniele: raccoglierne la poesia. La raccogliamo anche noi, a dispetto dei luoghi incontrati e del tempo che si consuma per mettere ordine in questa realtà; ma ringraziamo il nostro amico per averci suggerito cosa fare quando ci sveglieremo. (Pippo Pappalardo, 21 gen 2025)

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Pippo Pappalardo - "Mezzi di trasporto"
La fantasia è un mezzo di trasporto? E di cosa esattamente? Invero, bambino mi recavo a scuola “a piedi” (era vicino alla mia casa). E mio padre m’incoraggiava dicendo che stavo adoperando il cavallo di San Francesco. Tra noi bambini, ridendo, parlavamo di un mezzo di trasporto assai particolare e spartano ovvero “a cavaddu de’ causi” Poi sopraggiunse la scuola e, con essa, i libri e cominciammo a capire che i transatlantici come le biciclette, erano solo mezzi e non sogni da turisti o giocattoli di Babbo Natale. A scuola imparammo pure che i mezzi di trasporto ci avevano messo in confidenza con gli animali (con i carri, infatti, c’erano i buoi, i cammelli, gli asini, i muli, i cavalli, gli elefanti, i lama, gli struzzi e altri ancora). Ci avevano spinto a socializzare (omnibus, diligenze, carovane, corriere, pullman, torpedoni, camper, treni, aerei, funivie, metrò, dirigibili ed altro ancora). Ci avevano fatto aguzzare l’ingegno (vele, motori, energia umana e, quindi, risciò, tuk-tuk, monopattini, tandem, ascensori ed altro ancora) o le capacità imprenditoriali (taxi, traghetti, tram). Insomma, l’esperienza del trasporto (spostare per necessità qualcosa o qualcuno da un posto ad un altro) se, da un lato, ha corrisposto ad una evidente necessità, dall’altro, ha sviluppato conoscenze, esperienze che spesso si sono accostate ad espressioni e manifestazioni artistiche che hanno definito la storia e l’identità delle genti del pianeta; pensate agli sci ed alle slitte dei paesi nordici, pensate alle canoe ed alle piroghe degli indiani o degli africani, pensate alle gondole di Venezia, ai bateaux mouches di Parigi, o alle giunche orientali. Quindi i mezzi di trasporto non sono solo realtà fantastiche (come potrebbe esserlo la luna delle fiabe, il tappeto volante di Aladino, la scopa della Befana, la palla del cannone di Munchausen, il fagiolo di Giacomino ed altro ancora). I mezzi di trasporto sono compagni di vita che ci aiutano a prendere confidenza con la terra, con l'acqua e con l’aria facendoci pensare come degli esseri onnipotenti, talvolta angelici. Tutto questo, però, potrebbe sembrarci un inventario se non ci fossero, anche, i bimbi di un scuola bus, i bisognosi di un'autoambulanza, se con ci fosse un corteo dietro un carro funebre: sappiamo benissimo che dietro un mezzo di trasporto ci sta il teatro onesto e sincero della vita. Ed allora dichiariamolo pure: la tematica suggerita parla dell’uomo e della donna, dei loto bisogni e del loro procedere tra le meccaniche e i sentimenti, tra le fatiche per inventare una ruota e la difficoltà a capire l’importanza di una leva. Parla del loro sorriso di là delle loro pantofole, del loro bastone, del loro deambulatore. Perché ci sarà sempre un bambino che, sorridendo, salterà sul suo triciclo e, novello Edipo, proverà a risolvere l’enigma della Sfinge. Ma se proprio non avete bisogno delle mie fantasie pensate pure ai film come “Ladri di biciclette” o “Un maggiolino tutto matto”. E poi, fatevi trasportare dal vento, come le foglie, come le nuvole. (Pippo Pappalardo, 11 gen 2025)

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Pippo Pappalardo - “Namastè” libro di Emanuele Carpenzano
Tempo di Natale. Nel grande Karma dell’universo tante cose nascono e tante si allontanano dalla nostra percezione. Ieri, ad esempio, è nato un libro. E’ venuto alla luce, si è reso manifesto ed ha voluto parteciparci la sua esistenza. Se la nostra vita è una infinita biblioteca, questo libro, adesso, vi si confonde eppure ne è parte costitutiva e fa sentire la sua voce. Questa voce ha un suono che ci assale, ci disorienta, ci invita alla compassione, ci abbraccia e ci purifica. Parlo di “Namaste”, il lavoro concepito dai miei amici, i valorosi Emanuele Carpenzano, fotografo, e Letterio Scopelliti, giornalista. Un libro concepito tanto tempo fa, gestito con passione e diligenza, partorito in questi giorni difficili per il pianeta. Un libro per aiutare il mondo dei bambini e dell’infanzia, per supportare la missione di “save the children”. Per aiutare fondamentalmente la speranza e, quindi, ricondurci al “namaste”. Quindi, condurci a quell’inchino reverenziale fatto di riconoscimento, gratitudine, incontro e confronto. Ieri sera, al Palazzo della Cultura, gli autori hanno confidato ai compagni di sempre, ovvero a quel sodalizio che, in un clima di concreto impegno politico ed esistenziale, fa della cultura fotografica lo strumento privilegiato per comprendere se stessi ed il mondo, le ragioni e le necessità dell’opera realizzata; cosicché abbiamo capito che studiare l’India, la sua storia ed il suo futuro, è fondamentale; pertanto, niente più esotismo, niente più presunzioni di maggiore civiltà da parte del mondo occidentale, niente più atteggiamenti di tipo curatoriale. Abbiamo ancora molto da imparare. Molto ce lo insegna questa antica civiltà, molto nascerà dalla sua conoscenza e dallo scambio spirituale tra le nostre ambizioni ed i loro desideri. I presenti all’evento di ieri sera, adesso, attendono curiosi la mostra (ben duecento immagini fotografiche) che si terrà giorno 20 dicembre alle ore 18,00 sempre al Palazzo della Cultura in Via V. Emanuele, in Catania. Il sottoscritto, che ha collaborato a lungo alla nascita di questo corposo e prezioso volume, vi aspetta con affetto per partecipare qualcosa che ha sperimentato dentro di voi e che conosce da tempo. Ed allora, “namaste”. (P.P., 13 dic 2024)

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Pippo Pappalardo - Dioniso è contento.
Ieri sera, la talentosa Tiziana Sparacino, grazie alle sue immagini fotografiche, ha convocato nella nostra sala, niente poco di meno, che il dio Dioniso in persona per renderci partecipi, tra il dionisiaco e l’apollineo, dell’ebbrezza dell’esperienza costruita tra l’intenso desiderio di libertà (e, quindi, di liberazione), e la volontà di parteciparlo e condividerlo attraverso la (sua) rappresentazione. I vecchi miti, a proposito di Dioniso, ci raccontano di una divinità dalla natura contraddittoria e ambivalente, talvolta bizzarra, assai spesso orgiastica, trasgressiva ma mai invasiva. Dioniso, infatti, ci parla ancora di ebbrezza, di danza, di musica, chiedendoci solo di partecipare al gioco, spogliandoci dai pregiudizi e dai falsi pudori, semmai cercando la “pro-vocazione” per richiamare l’attenzione sulle vicende umane che ci circondano e che, purtroppo, non ci scandalizzano più. Tiziana ha agganciato la sua “performance” ai tempi della nostra giovinezza, allor quando ci sembrò che sarebbe bastata una poesia di Ginsberg o una canzone di Mitchell, o di Baez, per rendere aderenti le nostre aspirazioni ai desideri dei compagni di strada. Ed ha fatto benissimo: l’interesse della serata, infatti, dialetticamente, ha comportato l’affiorare dei ricordi, delle letture dimenticate, delle note musicali scomparse, nonché degli eventi sopraffatti dalla cronaca ormai privata della sua storia. Per le strade di Londra o di New York, ma anche di Catania, può tornare quella libertà da consegnare, poi, agli occhi curiosi e stupiti dei nostri figli? Con curiosità interessata e con responsabilità motivata, Tiziana (e il suo amico Dioniso) ci dicono che è opportuno tentare. E quindi, riprendersi la danza (v. "Le Baccanti”), la musica, i loro colori e il nostro corpo che con essi si confonde per raccogliere e custodire la sincerità del tempo. Questa, a mio personalissimo avviso, la “tematica” sottesa nel lavoro di Tiziana che ha sintetizzato la sua convinta rappresentazione appendendo alle pareti i segni espressivi della sua constatazione. Presentata da un’attenta ricognizione stilistica della nostra Roberta Giuffrida - sempre più padrona del ruolo affidatole - i fotogrammi selezionati si sono manifestati “frammenti di una formidabile cronaca” bisognosa di essere letta di là dei momenti provocanti: c’era, e c’è, nello sguardo della Sparacino, l’attenzione all’età dei protagonisti di questa “anonime rivoluzioni”, c’è l’attenzione alla loro convinzione, all’ambiente che li circonda, alle reazioni scaturite, agli scontri-incontri inevitabili. Quindi, e lo ripetiamo, una formidabile “cronaca” di taglio giornalistico, documentativo, dove “il come, quando, chi, dove e perché” si rendono evidenti per chi guarda e vuole capire. E vi lascio immaginare la difficoltà esecutiva. Concludo: c’è sempre, e senza però, quell’invito a cucire i tempi odierni (con i loro volti e le loro ansie) con quel mondo custodito nel recente passato e che reclama una sua prima genitura. Ieri sera un’amica mi ricordava la sua prima minigonna: mi partecipava la sua anonima, pulita, semplice provocante rivoluzione; senza ricorrenze, senza parate e della quale, con assoluta semplicità, andava orgogliosa, tra l’apollinea bellezza delle sue gambe e il dionisiaco turbamento degli sguardi. (P.P., 27 nov 2024)

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Pippo Pappalardo - Ma, poi, cos’è il Sud?
Una circostanza geografica? Una condizione esistenziale? Una tradizione fedele? Fedele eppure, tanto spesso, illusoria, meramente letteraria, drammatica. Roberto Strano, nel suo ultimo libro, ci confessa (e mai verbo risultò tanto appropriato) che il Sud è sempre un insieme di storie. Storie narrate come una fiaba, raccontate come in una confidenza, rivelate come una scoperta, come un segreto; apprese come una agnizione; tante volte manifestatesi come affabulazioni, coinvolgimenti, partecipazioni, condivisioni. Come nella migliore letteratura americana (vedi Lee Masters nell’Antologia di Spoon River, o Thorton Whilder, in “Piccola Città”) l’autore organizza attorno ad una città, Caltagirone, la sua città natale, ed intorno alla sua gente, una sequenza che ha i contorni della “Baaria” di Tornatore ancorchè depurata dal fatalismo del Premio Oscar. Storie, quindi, da vivere in comunione, in una collettività nella quale riconoscersi e riconoscerci? Certamente sì; nelle quali, però, la circostanza di viverle al Sud ti spinge a mantenere una tua posizione, un tuo punto di vista quasi privilegiato. Da qui, una visione autonoma, personalissima, ossessivamente identitaria. Ma Roberto è fotografo. Ed è un reporter che, per vocazione e per scelta, non ha voluto naufragare nel mare della “tuttologia”; piuttosto, come il pianista di “Novecento” di Alessandro Baricco”, preferisce adoperare il numero limitato e ragionato dei tasti di un pianoforte (e nel caso del suo strumento, l’essenziale incontro tra il diaframma e l’otturatore) per mettere, serenamente e senza affanni intellettuali, una parola chiara nel labirinto dell’esistenza di ognuno di noi. L’impegno è stato arduo? Questo libro lo fa solo trasparire: le sue immagini si accostano alla poesia della cara Maria Attanasio per spiegarci cos’è il senso fotografico dell’ombra, del buio della nostra Terra; ed a Lei si accostano le invenzioni (autentiche “truvature”) di Domenico Seminerio; quindi i richiami filologici di Mimmo Amoroso, o del prezioso Pietro Collini. Tutti compagni di strada, dei quali, in questo libro, leggiamo confortanti incoraggiamenti ed orgogliosi attestati di stima. Sullo sfondo, fa storia a se, la prestigiosa, fraterna, presenza di Ferdinando Scianna. Di cosa parlano, allora, queste immagini? Queste immagini (e queste parole) parlano di “noi”, del nostro genius loci, delle nostre albe e dei nostri tramonti, della nostra giovinezza come della nostra morte. Parlano dei nostri giochi, delle nostre follie, delle nostre preghiere. Parlano dei nostri affanni come, pure, degli attimi di riconosciuta libertà. Parlano dei nostri figli, delle loro aspirazioni, dei loro desideri come dei loro sorrisi. Insomma parlano del Sud perché, l’avete capito benissimo, il Sud siamo noi. (P.P., 8 nov 2024)

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Pippo Pappalardo – “Street of …. Catania”
Nino Martoglio, anima autentica di ogni figlio dell’Etna, nelle composizioni poetiche (v.” Centona”), come nelle commedie (v. “U’ contra”), ci restituisce il senso tutto particolare della “strada” catanese che, come giustamente sottolinea il nostro Barbera non è solo un’arteria necessaria per congiungere due luoghi, ma, anche, il magnifico palcoscenico laddove il tempo dei catanesi si fa mito, passatempo, necessità, specchio; talvolta, anche, preghiera, oblio, fatica, dramma. Un palcoscenico che non è costruito solo con le parole e con i gesti ma anche con i sensi: basta ascoltare, porgere lo sguardo, annusare, toccare, e le labbra si predispongono a ricevere, e baciare tutto un universo di sensazioni che impareremo a riconoscere come parte della nostra storia personale, quella eterna eppur quotidiana. Vivere e camminare sulle “basole laviche” della nostra città è un’esperienza che auguriamo a tutti di provare per comprendere cos’è la raffinata arte di confezionare la sporcizia urbana, l’ironica indifferenza al senso civico, l’assenza di attenzione verso una bellezza tutelata e condivisa. Il cittadino catanese vive la “sua” strada come un “flaneur”: non ha fretta, apprezza le pause, la scoperta delle novità, gli incontri, i rumori improvvisi, le sorprese più bizzarre. E soprattutto fa teatro: se lo inventa, lo vive. È il personaggio; lo è con la sua postura, con i suoi gesti, col suo proporsi. Se lo vedete camminare sul lungomare vedrete un catanese assai diverso da quello seduto ai Giardini Pubblici; se poi lo seguite ai mercati, non riconoscerete nel funambolo che vi sta davanti, il flemmatico vicino di casa. Ed i fidanzati? Beh, quella è una storia a sé. Ma veniamo alla nostra serata. Abbiamo imparato a chiamare “street photography” quella fotografia realizzata “accanto alla nostra porta” (P. Strand); quella fotografia che ha per protagonista la strada che interpretiamo come scena, come prospettiva, come simbolo. Quella strada che si confonde col significato dei nostri giorni, col ritmo dei nostri passi, con gli accidenti incontrati. Quella strada che è di Kerouac come di Fellini, o di Wim Wnders. In tal senso J. Meyerowitz o V. Mayer o Bruce Chatwin, ci hanno insegnato tanto; ma, ieri sera, il nostro talentoso Francesco si è spinto ancora più avanti. Si è compromesso salendo sul palcoscenico, scegliendo, come dichiarato nella sua presentazione, il ruolo del fotografo che “in prospettiva nascosto” (Brodskij), vuol dare una risposta alle sue ombre, alle nostre domande, ai loro sorrisi e alle loro lacrime. Con simpatico pudore, infatti, ha rubato all’anonimo rammentatore nascosto nel buio della buca, l’eco della strada, dei passi, delle ridondanze, degli esasperati contrasti. E le ha regalate, con intelligenza tutta fotografica, allo spettatore che domani con rassegnata leggerezza le trasmetterà al compagno di vita (e di poesia). Qualcuno cantava: “Dal letame nascono i fior”, e qualcun altro gli faceva eco parlando di uno stato di “grazia (Pasolini)” che ci risulta difficile da comprendere prima ancora che da condividere. Ma ho settanta anni e questa Catania l’ho avuta sempre accanto. Ci dice Francesco che è la realtà sociale che più conosce meglio: la conosce meglio tra la rabbia e la benevolenza. Anche noi. Ma, grazie a quella che tu chiami “street photography”, abbiamo fiducia che i nostri contrastanti commenti possano divenire serena cultura, come ai tempi di Martoglio. E comunque una splendida serata. (P.P., 29 ott 2024)

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Pippo Pappalardo - Ancora sul portfolio
Avevo immaginato che un piccolo seminario intorno alla “stato di salute” del cd. “portfolio fotografico” sarebbe tornato utile per coloro che vi si applicano, e per la conoscenza dello stato dell’arte del medesimo. Pertanto, nonostante il disagio per il cambio di destinazione del programma della serata, e per la necessità di allestirla in breve tempo (e con i mitici “fichi secchi”), nutrivo una certa speranza in una maggiore partecipazione e coinvolgimento. Così non è stato; sarà per un’altra volta. L’impegno, comunque, è stato assolto: i temi sono stati affrontati, le problematiche rilevate, le necessità esaminate e fatte emergere. Andiamo con ordine: preliminarmente annotiamo che la padronanza e l’esperienza di taluni momenti della nostra maturazione ed evoluzione fotografica non sono ancora del tutto assimilati e vissuti consapevolmente. Paradossalmente siamo tutti dotati di notevole cultura e disponibilità di informazione ma stentiamo a muoverci dentro i fondamenti della fotografia: concetti essenziali come tematica, poetica, stile sono visti più come risultati da raggiungere quasi accidentalmente piuttosto che aspirazioni costanti e presenti. Ed ancora ho avvertito un interesse fotografico asservito ad un mero passatempo piuttosto che una risposta ad una istanza intima, personale, esistenziale. E pensare, invece, che la nostra associazione annovera persone che hanno speso una vita intorno all’immagine fotografica: dalla loro esperienza dobbiamo muovere per non perdere tempo in accademie intellettualistiche. Per fortuna, con coraggio e determinazione, due fresche proposte sono arrivate dagli amici che mi hanno liberato dalla vischiosità di una esposizione (di cui non ero in vena) riconducendomi ad un interesse pieno di fiducia e di entusiasmo. Intendo parlare dell’ottimo Roberto Oriti che risolutamente è entrato nelle mie riflessioni con una testimonianza fotograficamente efficace quanto drammaticamente percepita e socialmente vissuta, frutto di un percorso ben elaborato e condiviso; al quale è doveroso aggiungere il sorprendente Fabrizio Vinciguerra che ci ha incantato per semplicità espositiva, freschezza compositiva, ed entusiasmo narrativo. Ecco, basta muovere da queste testimonianze per recuperare i momenti di distrazione, o i cali di tensione della comune esperienza visiva. I nostri amici hanno messo, nella loro fotografia, tanto desiderio di parteciparla. Tocca a noi darle eco, risonanza, attenzione e poesia. (P.P., 23 ottobre 2024)

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Pippo Pappalardo - Arrivederci ROMA.
Anno 1957, Renato Rascel insieme a Garinei e Govannini, compone questa bellissima canzone, portandola al successo in tutto il mondo. E’ una cartolina musicale, un fotogramma poetico fatto di note, di parole e di tanta nostalgia. Oggi non ci chiediamo più dove sia via Margutta o Squarciarelli, o chi sia il Pinelli citato nel testo, ma rimaniamo pur sempre incantati dal gioco della vecchia fontana che narra alla solita luna la storia di quell’Inglesina che un giorno partì; ma, prima di partire, buttò la monetina e sospirò. Io avevo cinque anni, una bella vocina e, sulle onde della radio, mi si invitava continuamente a cantare la canzone. Finii per innamorarmi di quella musica e di quelle parole. Mi identificai, addirittura, nella storia raccontata e, divenuto adulto, confesso, senza vergogna, di aver replicato, da turista, le immagini del testo. Invero, Roma è una città importante. Importante nella storia, nell’arte, nella religione, nel costume, nella tradizione, nella nostra identità italiana. Tante volte ho pensato che è grande anche in un aspetto che, penso, non si debba trascurare e cioè il senso di illusione che provoca. Protagonisti, a mio avviso, di questa sensazione, rimangono la Chiesa, la Politica ed il Cinema. Ma questo è un discorso che ci porta lontano dalle proposte fotografiche che ieri sera ci hanno regalato i soci. Preliminarmente annotiamo che le rappresentazioni della Città da loro proposte hanno deliberatamente fatto a meno dei gloriosi risultati di Monti, Berengo, Klein, List, Sammartino, Plossou, Secchiaroli, Erwitt, Pinna, Bechetti, Jodice, Corrivetti e via dicendo. Tutti, spavaldamente (?), non hanno inteso imitare i fotografi famosi. Piuttosto, ed, a mio avviso, intelligentemente, hanno, nobilitato “la vecchia cartolina”. Hanno sfidato l’iconografia classica e tradizionale, recuperandola semmai nel dettaglio, nella restituzione della stagione, nell’annotazione di qualche significativa presenza umana. Pertanto, nessuna digressione verso la Roma di Sordi, di Fellini o di Pasolini; pochi gli omaggi al Tevere ed alle “ciumachelle”; molta attenzione invece alla riconoscibilità del barocco. Ma il barocco è stato visto più come scenografia urbana piuttosto che come emblematicità della città eterna; e troppo spazio è stato accordato alla ricerca prospettica dell’immagine scelta trascurando composizione, significato, proposta visiva. Però, ed occorre riconoscerlo, c’era sotto sotto, un atteggiamento di benevolenza nei confronti della città. Le dobbiamo tutti qualcosa (un riconoscimento, un evento, un ricordo) e le siamo affezionati. Questo affetto era palese, quasi come un innamoramento, come nei vecchi film che riguardano la città, dai più vecchi fino a Verdone e a Moretti. Io dichiaro di essere legato a “Vacanze romane”. Voi siete una diversa generazione e ovviamente guardate al “La grande bellezza” di Sorrentino. Questa considerazione mi dice che la serata ci ha fatto capire quanto sia bello (o era bello?) camminare per Roma: camminare per Roma, e quindi assaporare quel venticello, riconoscere la Magnani in ogni donna, attraversare Campo dei Fiori, assaporare un piatto di fettuccine, sognare di avere accanto “la fioraia del Pincio”, riconoscere il suono di quella campana. Per una sera sono tornato stupido. Le vostre immagini mi hanno convinto che per una volta è lecito diventarlo soprattutto se anche la città fa la stupida. Ed allora riprendo il canto: “Ah dolce vita che te ne vai; sulle terrazze del Corso, l’oro, l’argento, le sale da the, profumo tuo di ……….. Alla prossima città.

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Pippo Pappalardo – Ten Minute
A) La rubrica Ten Minute ci riserva delle sorprese autentiche, tanto più vere quanto più coinvolgenti. Anno 1980, il nostro Cristoforo, per niente canuto ma rigogliosamente provvisto di barba e nero capello, contamina la sua fiera giovinezza con la volontà solidale dei suoi alunni e racconta che nell’anno del Signore 1980, non in commotione domini, era là, a Lioni (Avellino), a “dare una mano”, a suggerire un’applicazione tecnica, a dare concretezza e significato alla parola “aiuto”. Il terremoto dell’Irpinia, invero, ci ha coinvolto tutti quanti e, forse, è stato l’episodio che più ha dato la spinta alla costituzione istituzionale della Protezione Civile. Cristoforo lo racconta con semplicità, senza perdere di vista il dramma, il documento, la testimonianza. Emerge l’entusiasmo giovanile, la responsabilità dell’insegnante, e, nonostante la penuria dei mezzi, traspare il calore delle emozioni di là della neve e del freddo. Le immagini sono poche ma ben delineano il carattere del Nostro: una fotografia che sa farsi documento, che parla delle cose in maniera oggettiva, con un occhio che non vuol farsi prevaricare dall’emozione e rimanere testimone lasciando intatte le emozioni di coloro che “ci sono” senza se e senza ma. Una vera perla di reportage, involontariamente costruito con fotografie istantanee, ricordo di un’amicizia, di un anno di scuola, dove il rapporto con i propri alunni si fa espressione di valori testimoniati e condivisi. Un’autentica magia.
B) Avete conosciuto un Riccardo Lombardo in B/N? Io si; e non mi meraviglia la silloge da lui organizzata per presentarci una magnifica riflessione intorno all’esperienza assolutamente umana della “solitudine”. Non sembri un accostamento contraddittorio affiancare lo strumento fotografico, nato per “l’altro e per l’altrove”, alla “solitudine”. Già la semplice proposta di Riccardo ci ricorda che la solitudine ha probabilmente una sua valenza positiva. E Riccardo ce ne propone alcune visioni: uomini e donne risolutamente raccolti di spalle quasi ad interrompere i contatti, ed ancora, un confronto da pari a pari con la natura; ed infine una chiamata a raccolta delle risorse umane per verificare se davvero da soli ce la facciamo, Qua e là traspare una garbata ironia che ci riporta “all’altro” (vedasi la magnifica esposizione di bucato) ma, probabilmente il nostro fotografo, come nella canzone di Moustakj, “Ma solitude”, intende dichiarare che ci si può innamorare della solitudine, diventarle amica, parteciparla, trasmetterla. L’iconografia della sua rappresentazione, allora, è quella classica (molta natura, linea dell’orizzonte sempre presente, equilibri sempre ben chiari) e qualche effetto retorico ben dosato ed utilizzato. Lombardo è assai propositivo, come sempre, in questo suo lavoro. Sembra dirci di non mettere troppi inutili e banali chilometri davanti ai nostri occhi ma di utilizzare lo sguardo e quel tempo con naturale concretezza: quella degli umani sentimenti.

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