In fotografia, molti autorevoli artisti si ispirano a tanti protagonisti spesso lontani dal più comune sentire

Se ne parlava l’altro giorno con l’amico Pippo e si concordava sul fatto che con “Quelli di Bagheria” Ferdinando Scianna ha realizzato, più che in altri volumi pubblicati, un bellissimo documento di una realtà da lui vissuta e felicemente raccontata.
Senza veli, senza allusioni o messaggi criptici, il libro edito dalla “Fondazione Galleria Gottardo” nel 2002, forte anche di evocative immagini rigorosamente in bianco e nero, elabora perfettamente singoli fotogrammi di pura memoria di chi ha vissuto quei tempi e in quei territori in particolare.
A prescindere dalla specificità “bahariota” la Sicilia provinciale è in ogni caso tutta ben rappresentata e le singole immagini consentono di rivivere scene vissute da tanti di noi, in un’infanzia che accomuna e dove i riti quotidiani similari tendono a replicarsi negli angoli dell’intera isola.
Magari forse rappresentati da personaggi anagraficamente e specificatamente diversi nei differenti luoghi, che svolgevano pure mestieri similari, ma tutte immagini di momenti/memoria collegati da un filo conduttore unico.
Per chi ha i capelli già argentati o completamente bianchi, sfogliare le pagine del libro vuol significare chiudere gli occhi per rivivere un proprio passato; attraverso le molteplici immagini in bianco e nero che sono esposte nel vissuto personale degli anni sessanta, che a ciascuno di noi sicuramente appartengono, perché sono di certo ormai la nostra storia.
In fotografia, molti autorevoli artisti si ispirano a tanti protagonisti spesso lontani dal più comune sentire. Non è questo il caso di Ferdinando Scianna il quale, ancorché e da sempre ispirato dalla scuola di Henri Cartier Bresson e dapprima consigliato e instradato da Enzo Sellerio, oltre che culturalmente influenzato da Leonardo Sciascia, è sempre riuscito a mantenere saldamente stabili le sue solide radici con quella tipica sicilitudine che lega tutti i maggiori artisti isolani fin già dal primo novecento.
In generale, a prescindere dalle sue produzioni, osservare qualunque foto di Ferdinando Scianna è leggere la Sicilia.
Sia che le sue immagini risultino stagliate nei suoi tipici bianco e neri violenti oppure armoniosamente intrise nelle tante gradazioni di grigio, di per sé abbondantemente narranti.
Nel suo caso, infatti, non occorrono artifizi particolari, che alludano all’onirico o a delle speciali tecniche rivolte a un concettuale spesso complicato e contorto e nemmeno mossi o sfasature volute per caratterizzare o far riconoscere da subito il tocco distintivo dell’artista affermato.
Sfogliare i libri di Ferdinando Scianna, almeno per me, è riconoscere perfettamente il linguaggio della mia terra e leggere le molteplici storie raccontate dalla sua fotografia.
Un colpo altrettanto abile nell’operazione “Quelli di Bagheria” è rappresentato dall’editing progettuale, dove fotografie, didascalie, pensieri e considerazioni si mescolano per impreziosire e rafforzare ogni elemento scelto e rappresentato.
Per intrigare ancor di più gli estimatori dell’autore si rimanda alla interessantissima prefazione posta nelle prime pagine del volume, dove Ferdinando Scianna confessa di aver voluto sostanzialmente perseguire con il suo progetto il solco precedentemente tracciato, in forma letteraria, dall’amico Leonardo Sciascia.
Citando Ernesto De Martino, riguardo all’universalità di certe narrazioni, Scianna scrive pure che: “solo chi ha un villaggio nella memoria può avere un’esperienza cosmopolita”. Non è l’unica delle chicche che portano ad allargare lo sguardo, leggendo il volume se ne scopriranno tante altre.

Buona luce a tutti!

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