"Compagni di strada, compagni di avventura, compagni di poesia" di Pippo Pappalardo.



In qualche modo si ripropone con costanza il parallelismo fra pittura e tecnica fotografica.
Ripercorrendo la genesi e l’evoluzione storica della seconda, efficacemente illustrata da Giséle Freund (Fotografia e società) e alla quale si rimanda, appare evidente come entrambe le discipline ormai costituiscono strumenti per nulla in concorrenza, diversamente da quanto temuto all’origine; anzi entrambe si rivelano oggi utili, complementari ed efficaci per svolgere percorsi intrisi di tematiche concettuali e continui intenti creativi.
L’immagine visiva, ieri come oggi, continua pertanto a costituire – e sempre più - una sintesi volta a manifestare con immediatezza ogni intendimento comunicativo. Virtuale o reale poco importa, purché si riescano a raggiungere gli scopi creativi sottostanti.
Del resto è anche risaputo che l’autorialità, in ogni caso, prescinde dagli obiettivi e dagli intenti originari, in quanto costantemente legata ai luoghi e ai linguaggi convenzionali in uso che, associati, di volta in volta condizionano ogni giudizio e risultato.
Nella sua evoluzione, nata, come fu per Eva nel racconto biblico, dalla costola di Adamo, la fotografia ha via via sviluppato nuove e diverse forme espressive, con tante tecniche, fino a innestare un interscambio spontaneo e naturale volto a confondere i generi.
Nulla di nuovo, anche qui sono ormai leggi di natura, con le contaminazioni e le influenze che connotano le esperienze umane.
Di seguito vengo a proporre l’interessante traccia che lo scorso sabato l’inesauribile Pippo Pappalardo ha sviluppato fra gli amici fotografi e i tanti artisti riuniti presso la “Galleria Vacirca" di Caltagirone, che mi piace condividere nel mio blog per permetterne la lettura e magari contribuire indirettamente a fornire spunti riflessivi ai tanti appassionati di fotografia che possono trovarsi interessati.
Dalla lettura deriva marginalmente, oltre che qualche riferimento all’argomento del giorno e che tanto preoccupa (IA), anche un aspetto un po’ accennato da Pappalardo nello scritto e che è, a mio parere, anch’esso molto importante nelle proposte artistiche di oggi, ovvero l’allestimento.
Indipendentemente dalla valenza intrinseca ad ogni opera artistica, la presentazione estetica e l’interrelazione logistica nelle mostre allestite da curatori, costituiscono elementi indispensabili e molto importanti per indicare la narrazione artistica e magari rafforzare il dialogo delle opere esposte.
Per quest’ultimo aspetto si rimanda a un eventuale altro regalo che, nel caso e se lo riterrà opportuno, l’amico Pippo, vorrà proporci.

Buona luce a tutti!


© ESSEC

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Compagni di strada, compagni di avventura, compagni di poesia.

A quale genere ascriveremo questa breve nota fotografica? In effetti non abbiamo avvertito alcuna necessità di costruirla come una presentazione sulla personalità dei nostri artisti; né l’abbiamo immaginata come un dispositivo critico ed esegetico utile per illustrare la loro opera e le loro opere; e, volutamente, non intendevamo suggerire percorsi interpretativi circa il senso e la qualità dei loro elaborati. Ed allora?
Più semplicemente, siam voluti tornare sulla “scena del delitto” e, pertanto, tentare di capire quel momento iniziale (nella contrapposta vicenda artistica tra fotografia e pittura) che ha dato il via ad un nuovo modo di vedere le cose e di rappresentarle.
E se, dapprima, fu la presunta “oggettiva visibilità” del risultato fotografico a impressionare gli occhi dei nostri antenati, ben presto la riflessione su questo risultato - che rimane pur sempre “un risultato virtuale” -, insieme con la ricerca scientifica sulle risorse e sui limiti della percezione visiva, e sul carattere effimero di quanto intravisto, ci convinsero che il reale, dentro e fuori di noi, è ancora avvolto nel mitico velo di Maja; e la fotografia e la pittura, insieme e consapevolmente, hanno compiuto, ed ancora compiono, sforzi non indifferenti, per squarciarlo.
Eppure davanti un’immagine fotografica esclamiamo ammirati: “Bellissima. Sembra un quadro”. E davanti alla verosimiglianza di un quadro, proferiamo: “Magnifico! Sembra una foto”. Sappiamo, per esperienza, che tali reazioni irritano i loro Autori: da tempo, il “combattimento per un’immagine” è senz’armi e senza ragioni di belligeranza; eppure, ancora oggi, la cosiddetta “aura artistica” è chiamata in causa allorquando alle pareti sono accostate e contrapposte paradossalmente le diverse testimonianze della medesima radice espressiva e, quindi, dell’immagine e della sua rappresentazione e condivisione.
Invero, sui due fronti, si sono schierati i migliori cervelli degli ultimi secoli, contraddicendosi e confondendosi. E noi, qui, proviamo, ancora una volta, a penetrare tale complessità arricchita da una tecnologia che non ha ancora esaurito di stupirci. Ad ogni buon conto, con l’aiuto di Benedetto Croce, sottoscriviamo che l’esperienza visiva, quando si propone come esperienza artistica, muove da un’impressione sensuale, fisica, che si fa emozione nella ricerca di una sua intima definizione e diviene espressione di un’idea che liberatasi dai suoi gravami ormai è pronta per la sua rappresentazione e condivisione. Così il nostro filosofo, che, però, non attribuiva valore estetico o artistico alle fotografie perché troppo semplici da eseguire (e non è rimasto il solo!).
Adesso, volendo allestire una sequenza fotografica che dialogasse con i nostri pittori, si intendeva mantenere le domande di cui sopra, e proporre la possibile comprensione dei due fenomeni/esperienze da tempo contrapposte e che pure invadono i pensieri dei nostri giorni: da una parte, in fotografia, la constatazione di una ricerca che va verso l’occultamento dell’autore, quasi un timore ossessivo per la sua presenza autoriale, tutta a favore di una sua scomparsa (vedi gli ultimi esempi di applicazione della cosiddetta Intelligenza Artificiale della fotografia digitale); e, dall’altro, l’orgogliosa riaffermazione dell’individualità artistica, romanticamente e titanicamente (ri)proposta quale espressione di autonomia identitaria, di individualità creatrice, di libertaria risoluzione espressiva del genere umano.
Ed allora? Si è preferito prendere lo strumento in mano (quello fotografico), portarlo all’altezza degli “occhi, del cuore, del cervello”, e farlo interloquire con le persone, con gli strumenti, con gli ambienti che con altrettanta dovizia tecnica ed altrettanta passione continuano a dare una forma al tempo, una nuova matematica allo spazio, una nuova figura alla fantasia. Badate bene: l’esperienza è assai vecchia. Conosciamo infatti lo scambio tra le due avventure visive praticato già con disinvoltura dai pittori del secolo scorso fino all’eclettico Picasso; ed a tutti è nota l’epocale mostra “Combattimento per un’immagine”, 1973 – GAM Torino, curata da Carluccio e Palazzoli; e non possiamo prescindere dal magistrale contributo di Ugo Mulas che ci ha lasciato con “New York, arte e persone” un corretto, onesto, criterio per sciogliere ogni contrasto rifuggire ogni polemica.
Pertanto, andando a casa dei nostri artisti, nei loro studi, e guardando i loro attrezzi, sbirciando i loro progetti e catturando i loro gesti , il documento fotografico che è emerso dalla loro visione si è fatto motivo di emozione, causa di espressioni diverse ed oggi è qui accanto alle opere pittoriche per parlare con il linguaggio differente non di un “attimo fuggente” ma di un laboratorio di idee e di sentimenti affidato pur sempre a superfici confinate, a colori creati, a linee connesse non dal caso ma da un pensiero a lungo meditato; molto a lungo.
Questi accessi ci hanno riportato gli scambi tra fotografi e pittori come Degas, Cézanne Matisse, Duchamp e agli scultori come Brancusi, Messina, Pomodoro, Ceroli, Alik, Paladino. E con loro, la convivenza artistica e l’arricchimento reciproco scaturito da sodalizi stupefacenti come quello tra Giacomelli e Burri, tra Berengo Gardin e Nespolo. Straordinario, aggiungo io, l’incontro dei fotografi con l’opera di Morandi e, quasi una lezione d’arte per tutti, la visione di Piero della Francesca.
Ma cosa significa fotografare un’opera d’arte pittorica, un gesto pittorico? Certamente è cosa assai diversa riprendere un momento teatrale: in studio la tela sta ferma, la statua non si muove e riceve una luce spesso assai costante. Ma davanti ai tagli di Fontana, tra gli equilibri sospesi di Calder, tra le “colature” di Pollock, dentro l’obbiettivo del fotografo non passa forse il dinamismo di un pensiero, di una ricerca, di un incontro, di una partecipazione? Non diciamo sempre che “dietro l’obiettivo c’è un’idea, e davanti c’è il reale”?
Ebbene, proprio queste sensazioni ci hanno guidato ad una comunione. Una comunione che come racconta Scianna, riportando il suo incontro con Mulas, è una sfida: “troppo facile fotografare il barbone affamato; prova a puntare la macchina da un’altra parte, scegliti il “tuo” punto di vista e fattene una ragione”.
In effetti queste sequenze sono come delle “tracce, delle tappe”, sono figure attraverso cui la nostra coscienza di visitatori della Galleria abbatte le distinzioni, le categorie enciclopediche e converge sulla condivisione, sulla partecipazione.
“Non pensiamoci, allora, come due rive opposte: noi siamo il fiume” (Borges)".
Pippo Pappalardo

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