Tutti i bambini del mondo sono dei cuccioli

Moltissimi anni fa partecipai a una serata nella quale, con dei proiettori carousel integrati della Kodak, andammo a presentare in pubblico dei diaporami a tema.
Il parroco della parrocchia che aveva messo a disposizione la sala sottostante alla chiesa fu molto contento dell’iniziativa. Gli intervenuti, che non erano tenuti a pagare l’ingresso, in molti conferirono, infatti, un contributo economico di propria sponte.
Ricordo che il mio lavoro in quella serata era costituito da un reportage d’immagini di un viaggio in Cina del 1991; come pure ricordo che quel parroco venne a fare la classica domanda che spesso viene proposta a chi ama fotografare: “perchè la fotografia e cosa induce a fare delle foto”.
In modo spontaneo andai a rispondere che per me fotografare sempre nuove cose, anche attraverso viaggi in luoghi diversi, era una necessità di ricerca e indagine, per osservare umanità nel mondo, per potere conoscere meglio così anche se stessi. Di ciò sono convinto anche adesso e, osservare cercando di capire modi di vivere differenti, talvolta alquanto lontani dal nostro ambiente culturale, sta da sempre alla base delle tante esperienze di viaggio.
In questi giorni ho anche assistito a un lungo dibattito, nato a seguito di una proiezione d’immagini pubblicate in un recente prodotto editoriale incentrato sulla “asiaticità”, e dal confronto sono affiorate interessanti considerazioni.
Le disquisizioni sull’argomento partivano però tutte da presupposti un po’ prevenuti, ovvero erano genericamente accomunate da idee abbastanza preconcette, seppur basate su studi attenti e approfondimenti documentati.
In sostanza, basandosi su una cultura occidentale, seppur proiettata alla ricerca delle radici culturali delle varie realtà oggetto dei viaggi, l’intento dei progetti - e conseguenzialmente i reportage fotografici – era forse più quello di voler verificare idee precostituite.
In un caso però l’approccio trovava una giusta chiave, stante l’assoluta predisposizione a voler respirare l’aria mistica millenaria consolidata, comune nelle civiltà meno contaminate.
L’argomento veniva pure a mescolare i recenti cambiamenti intervenuti in talune comunità, basate su un progresso molto politicizzato, pure influenzato fortemente da una globalizzazione travolgente.
La Cina, in ciò, ha rappresentato un classico esempio che corrisponde alla velocità vertiginosa in un cambiamento sociale volto a un colonialismo 2.0, che risponde in parte anche a necessità interne di questa grande nazione.
Lo stesso potrebbe dirsi anche per l’India, ove però confliggono profonde diseguaglianze in una organizzazione sociale che continua a basarsi su caste, rispetto a un disegno capitalistico governativo che, però, qui non presuppone mire espansionistiche.
Sono, in ogni caso, ancora molti gli angoli del mondo che mantengono pressochè integre delle comunità che resistono rispetto alla globalizzazione selvaggia che avanza inarrestabile.
In ogni caso, ogni realtà deve essere studiata anche per le caratteristiche autoctone. Mettendo dentro culture, ordinamento politico, religioni e ogni altra specificità tipica.
Un aneddoto apparentemente stupido, che ricordo ancora, è stato quello emerso in un dialogo fra un turista italiano - durante un viaggio nella Cina classica (proprio quello del 1991 accennato prima) - con la guida locale, che in quei tempi il partito comunista assegnava ai tour, per accompagnare i turisti stranieri.
Per trarre vantaggio economico nel proporre e vendere prodotti made in Cina, si facevano visitare anche molte fabbriche, per poi indirizzare ai reparti vendita e invogliare a comprare prodotti realizzati il loco. Erano, ad esempio, industrie tessili, dove si realizzavano bellissime sete, oppure luoghi dove era sviluppato tutto l’intero ciclo produttivo di cloisonne e altre realtà ancora.
Sul pullman il turista del nord Italia, ridendo, ebbe a osservare ad alta voce che noi occidentali, per produrre un certo risultato industriale, magari tramite un’adeguata catena di montaggio robottizzata, avremmo impiegato non più di un dipendente. La guida turistica locale fece pacatamente però osservare che la popolazione in Cina era costituita da oltre un miliardo di persone, per cui l’impiego della manodopera - che poteva forse apparire per il nostro mondo spropositata - era per loro una necessità socio-economica, volta a consentire il più possibile il lavoro per la sussistenza della gente.
Quest’aneddoto sta ancora una volta a confermare che non sempre un osservatore esterno riesce a cogliere le complessità che caratterizzano usi, costumi e consuetudini.
Per poter avere una idea delle realtà che si visitano occorre pertanto molta umiltà e uno spirito di osservazione che riesca andare al di là di ciò che la nostra cultura è portata a vedere.
Tutto questo prescinde dalle realtà politiche che caratterizzano temporalmente i vari angoli del mondo. Poiché, in questo caso, le cose si complicano in interconnessioni nazionalistiche, tra organizzazioni più o meno democratiche e forma di totalitarismo che si incastrano temporalmente secondo interessi convergenti o contrapposti, in relazione anche agli equilibri politici internazionali contingenti.
La verità certa è che nessuno ha facoltà di scegliere dove nascere e i contesti che accolgono i tanti nascituri andranno a modellarli secondo le realtà sociali ospitanti. Ne è riprova assoluta il fatto che tutti i bambini del mondo sono dei cuccioli, per l’insita spontaneità e pulizia che li accomuna, a prescindere dalla figliolanza.
Per concludere, una costante nei miei rientri in Italia era la semplice considerazione di quanto C. avessi avuto nel nascere e vivere nel mio mondo.

Buona luce a tutti!

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