Antonio Lorenzini: "Romanì"

Sarò all’antica ma io accosto molti aspetti della fotografia, anche quella moderna, alla pittura di un tempo. Vengo a spiegarmi meglio.

Una sequenza d’immagini, costituiscano un portfolio fotografico, un album di viaggio, uno slide show, un filmato ovvero tutto quello cioè che assembla una serie di scene concatenate in un unico progetto, in verità costituiscono un prodotto che condiziona fortemente l’osservatore. Per quanto ovvio, la scelta delle rappresentazioni e il soffermarsi sui particolari selezionati, in qualche modo crea un racconto che indirizza verso un messaggio preciso.

L’autore che propone, di fatto induce e accompagna chi osserva a vedere e leggere una serie di simboli/messaggi che ha elaborato secondo una sua personale costruzione e un uso di linguaggio che gli è proprio. Un’operazione siffatta può ben andare a costituire un’opera anche da capolavoro, ma si tratterà di una scrittura - corroborata da tante pagine - che si soffermerà a raccontare una storia pressochè completa.

La difficoltà di concentrare il tutto in una fotografia, come un tempo fu per la pittura (comunque libera di non dover essere obbligata a rimaner fedele alle realtà rappresentate) è cosa risaputa, ma il fascino di leggere in un solo fotogramma un intero racconto seguendo la propria sensibilità, navigando con la fantasia e con il proprio bagaglio culturale, è certamente un’altra cosa.

In ogni caso, ben vengano novità e le sperimentazioni. Tutto è lecito e ben accetto, purchè si portino avanti innovazioni e valide alternative.

Non so quanto c’entri ora tutto questo ampio cappello con il lavoro che Antonio viene a proporre.  

A scanso di equivoci, poiché il suo prodotto è stato già sottoposto a letture di portfolio da parte di professionisti del settore, con quanto verrò a dire, non c’è nessuna intenzione e ancor meno velleità di invadere il loro campo.  Le mie restano delle semplici considerazioni che si limitano a dare un’impressione d’insieme e di parte sulle tante immagini confezionate nel progetto.

Il tema trattato è di per sé abbastanza complesso e da lungo tempo è anche assai dibattuto.

Da sempre la commistione fra l’indole dei rom, votata al nomadismo e la loro intrinseca natura di non rassegnarsi a definitive integrazioni - che potrebbero tornare utili anche alle seconde generazioni, oltre che alle comunità chiamate ad accoglierli - a mio modo di vedere rappresenta il punto nodale dell'argomento trattato.

Per non dilungarsi in questioni antropologiche, politiche o di convivenza sociale, che difficilmente potranno approdare ad un unico sentire, mi limito a leggere il racconto come fossi un osservatore di un film o come stessi leggendo le ventidue pagine fotografate. La costanza di scegliere il B/N aiuta allo scopo. Come ben sa Antonio, elimina ciò ogni distrazione dai colori, in un tema che vuole concentrarsi e far concentrare sulle specifiche tematiche delle comunità sinti.

Il quadro generale che ne esce potrebbe anche far trasparire – a prima vista - una marginalità esistenziale di un popolo da sempre bistrattato ma, riflettendoci meglio, potrà ben accettarsi l'idea che questa è in fondo la loro realtà. Le miserie ambientali evidenti sono, infatti, il loro vivere quotidiano che – senza alcuna offesa – per loro costituiscono una dignitosa normalità.

Per noi cittadini il nostro giudizio, com’è naturale che sia, è quindi fortemente influenzato dallo status sociale che ci caratterizza.

Se, infatti, si andasse indietro nel tempo, negli anni sessanta ad esempio (specie nelle zone sottosviluppate dell’entroterra e del sud in particolare), scene come quelle rappresentate oggi nelle tante foto di famiglie zingare, sarebbero abbastanza simili se non uguali.

Veniamo al lavoro proposto.

Grosso modo con le foto viene rappresentata una giornata tipo di una famiglia accampata in una qualunque zona periferica urbana. Lo sguardo è rivolto essenzialmente alla famiglia, alla dimora, alle abitudini domestiche, alla condizione di piccoli e grandi che coabitano in un contesto, senza alcun dubbio, fatiscente. Tutto è quindi concentrato sulla vita condotta in baracca e nei dintorni più prossimi. Le fotografie congelano momenti di vita vissuta, intimità e convivenze, apparentemente comuni, umili e semplici. Nulla si conosce del loro collegamento con l’esterno, con le realtà certamente più confortevoli che li circonda. 

Forse non faceva parte del progetto di Antonio, che voleva più soffermarsi sull’umanità che contraddistingue queste famiglie che, per i valori fondamentali almeno, appaiono poco dissimili dal modo di vivere che c'è dentro le nostre mura domestiche popolari.

Non so se questo era il vero unico obiettivo, è però quello che sono riuscito a intravedere nel ricco documento così ben articolato.

A qualcuno forse piacerà meno qualche immagine, magari qualche altro avrebbe a sua volta organizzato meglio o a modo suo i fotogrammi della storia, ma queste sono altre questioni che ci piace lasciare agli esperti. In questa sede ci premeva cercare di leggere solo il succo del racconto.

 

Buona luce a tutti!

 

  © Essec 

 

 

Il testo che accompagna il portfolio di Antonio Lorenzini è:

 

Romanì.

La gente venuta negli anni 90 con la speranza di un futuro migliore. Hanno dato vita alla generazione che è presente ma senza che sia cambiata cosa alcuna.

Un limbo di emarginazione durato decenni come una condanna dantesca e come un girone sono i “campi” dove si avvicendano le nascite, le vite, le speranze.

Il mio “viaggio” all’interno del campo Rom il Poderaccio a Firenze racconta la quotidianità di un popolo: i Romanì. Una quotidianità fatta di piccoli gesti, di grandi bisogni e di uno in particolare: essere visti, essere guardati, respirati, nutriti, dissetati, in una sola parola essere "vivi" per tutti, per se stessi e per coloro che alla vita guardano indulgendo solo al lato in ombra, senza mai stupirsi di quanta luce si celi in quel buio da cui emergono voci, canti, grida, risate, lacrime, sospiri, "vita".

 

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P.S. - Poichè il commento di Antonio "è leale il tuo testo" ha in qualche modo palesato il fatto che le sue attese erano diverse, sono tornato a riguardare le foto singolarmente per costruirmi, con parole, il mio racconto. Leggo e scrivo quindi in sequenza di portfolio:

"Una figura regale che si muove in un tappeto introduce alla foto due, dove delle figure sono impegnate in un dialogo, suggestionando l’attesa. Ma basta solo avvicinarsi dalla porta d’ingresso per accorgersi che ci si trova di fronte ad una baracca fatiscente, una dimora che costituisce con altre una baraccopoli sinti. L’ambiente, in ogni caso, pullula di vita: bambini e mamme convivono manifestando loro emozioni, come facciamo noi mammiferi tutti normalmente. Anche agli anziani spettano dei ruoli domestici attivi e uomini adulti contribuiscono ai bisogni del sostentamento e alle incombenze della tavola. Un fumo che avvolge l’ambiente, miscela le sagome delle persone con le case. Una nonna si accinge a riguardare una foto che le ricorda memorie di un tempo passato; forse si tratta di una baraccopoli che si trovava in territorio slavo, chissà. Come in ogni comunità i bimbi la fanno da padrone, sgattaiolano fra gli spazi angusti e circoscritti, saltellano e ballano per apprendere usanze che si tramandano da tante generazioni. C’è anche chi sta studiando in un angolo più nascosto. La sequenza si chiude mettendo in risalto aspetti dell’insediamento, dove una rete che delimita lascia intravedere una figura che si allontana, verso una via che però non lascia intravedere un orizzonte."

 

 

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