Scrivere e leggere in fotografia

La Treccani definisce la scrittura come una “rappresentazione visiva, mediante segni grafici convenzionali, delle espressioni linguistiche” e cataloga i vari sistemi in relazione ai tempi ed alla tecnica utilizzata.
In ogni caso lo scrivere fissa sempre il frutto di nostre elaborazioni cerebrali, di pensieri e concettualizzazioni che rendiamo stabili redigendo frasi, appunti ed in genere scritti più o meno complessi.
Con il tempo la razza umana ha elaborato il proprio mondo tramandandosi esperienze e tecniche attraverso  linguaggi e forme d’arte convenzionali che hanno accomunato i diversi gruppi/comunità.
Civiltà si sono sempre più affinate e, attraverso evoluzioni ed involuzioni, i popoli hanno cristallizzato la cultura, tramandandola fra generazioni, attraverso metodologie comuni incentrate nella scrittura.
Anche la fotografia, come ogni altra forma d’arte, può tranquillamente annoverarsi fra le forme di scrittura: del resto noi tutti diciamo comunemente che una foto è il frutto di una lettura e fissazione di luce effettuata attraverso apparecchiature.
Quindi, in qualche modo, anche nel panorama fotografico abbiamo tante tecniche e forme espressive che, oltre a rispondere ai connotati classici riconosciuti e riconoscibili attraverso variabili logiche e sintassi specifiche, consentono di cogliere e comunicare realtà visive e sensazioni.
L’efficacia di una scrittura, sia essa vocale, letterale, artistica e quant’altro può essere più o meno comprensibile, durevole e riconosciuta opera d’arte in relazione ai tanti elementi che la compongono. La relatività, del resto, è l’essenza di ogni manifestazione umana.
Scuole di pensiero e tendenze aiutano a porre intanto delle pietre miliari che convenzioni riconoscono; valori accomunati consentono, quindi, interscambi fra gli esseri viventi, nel tempo e nello spazio.
Tutto si ricollega alle nostre conoscenze, alla capacità di comprensione ed elaborativa del nostro cervello e tutto quello che riguarda la tecnica costituisce un mezzo espressivo che, sapientemente usata, ne facilita gli scopi.
Questo prolisso panegirico, che tende a risultare noioso, in verità vorrebbe sostanzialmente accreditare le tante metafore che spesso usiamo anche in fotografia, per leggere e raccontare ciò che la nostra mente vede, secondo la nostra cultura e la capacità espressiva insita in ciascuno di noi, al dna personale che ci contraddistingue.
Nel ruolo che ricopriamo di direttivi, operatori o semplici utenti, ci muoviamo però tutti in contesti convenzionali, seguendo regole precostituite e riconosciute di norma da maggioranze in vario modo precostituite.
Da tutto questo deriverebbe che il bello assoluto non esiste, come la verità nella vita; perché riusciamo a vedere attraverso i nostri occhi che sono strutturati secondo madre natura e collegati ad un elaboratore corredato da una ram individualmente variabile ed un processore condizionato dalla cultura che deriva dallo studio di tante scuole di pensiero.
Giudici e giudizi ne sono pertanto una conseguenza e il frutto. Così come “prime donne” e “millantatori” costituiranno sempre i corollari che accompagnano i “fessi”.
Che dire ancora se non buona luce a tutti.

© Essec 
 
 

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