Cinquant’anni sono tanti.
Cinquant’anni
sono tanti. Ne avevo solo sedici quando mi bloccarono, dalle parti di
Caltanissetta, con il gruppo di volenterosi amici che, in una Fiat
Giardinetta 5oo colma di coperte, provava a dare, senza guida e senza
assistenza, un possibile conforto a chi tutto aveva perduto.
Finì li la mia presenza solidale; cominciò li la mia curiosità fotografica; e oggi guardando quelle fotografie penso solo alla giovinezza, al nostro 68, alla morte del nostro paesaggio, alle utopie della sua ricostruzione e ai tanti propositi fotografici ai quali fu affidato ed ho affidato quella Conversazione in Sicilia.
E’ venuto il Presidente, sono riemerse le storiche eccellentissime fotografie di tanti grandi, e Pepi Giaramidaro, da fotografo e giornalista onesto (un Walker Evans ritornato tra noi) , pazientemente ha rimemorato il freddo di quei giorni non chiedendone nulla alle immagini ma pretendendo molto dai loro lettori. Perchè?
Perchè “le fotografie mostrano e non dimostrano”; e confrontando quel paesaggio con quello presente (“e vivo e il suon di lui”, direbbe Leopardi) ebbene, dico che la situazione è irredimibilmente uguale, al di là delle speranze, dei sogni e delle utopie.
C’era un paesaggio da redimere, anche fotograficamente, e ci siamo bloccati nel tempo e nello spazio: non siamo stai capaci di parlare in termini propositivi, apocalittici, rivoluzionari. Sdegnati, ci siamo e ci stiamo rifugiando nel political correct.
I fotografi che successivamente ci hanno spiegato questo equivoco ce li siamo fatti passare addosso come acqua fresca: ora il discorso diventa più difficile, più tormentato; tutto si avvita sulla miseria, sulle disgrazie e sulla buona, quanto rassegnata, volontà degli abitanti di questa terra.
Questa Terra, e con essa il paesaggio, vera scena teatrale della nostra umanità, va redenta e non solo benedetta dal senso della memoria: nel vuoto di questa redenzione si annida solo il senso tragico della maledizione-
Questo linguaggio potrà apparirti duro ( e te ne chiedo perdono) ma se provi a leggere l’amico Giovanni Chiaramonte “Interno perduto”, o “Sequenza sismica”, Skira, a cura di Filippo Maggia, converrai che i siciliani si sono vestiti di pianto con troppa fretta senza capire quanto era successo e, paradossalmente, affidandosi agli altri per comprenderlo.
Avremo un anno di confronti, di rimeditazioni, di mea culpa ma, spero, anche di nuove immagini dove, ne sono convinto, “non ci sarà nulla di antico sotto il sole”.
Nella storia della fotografia mai ci fu un risultato duraturo ed esemplare come l’esperienza della Farm Security Administration (il solo riflesso che quelle immagini e quei fotografi ha saputo riverberare sulla letteratura e sulla cinematografia statunitense ci dovrebbe far pensare ancora). E i risultati, economicamente e politicamente, ci furono (ad onor del vero ci fu anche una guerra).
Finì li la mia presenza solidale; cominciò li la mia curiosità fotografica; e oggi guardando quelle fotografie penso solo alla giovinezza, al nostro 68, alla morte del nostro paesaggio, alle utopie della sua ricostruzione e ai tanti propositi fotografici ai quali fu affidato ed ho affidato quella Conversazione in Sicilia.
E’ venuto il Presidente, sono riemerse le storiche eccellentissime fotografie di tanti grandi, e Pepi Giaramidaro, da fotografo e giornalista onesto (un Walker Evans ritornato tra noi) , pazientemente ha rimemorato il freddo di quei giorni non chiedendone nulla alle immagini ma pretendendo molto dai loro lettori. Perchè?
Perchè “le fotografie mostrano e non dimostrano”; e confrontando quel paesaggio con quello presente (“e vivo e il suon di lui”, direbbe Leopardi) ebbene, dico che la situazione è irredimibilmente uguale, al di là delle speranze, dei sogni e delle utopie.
C’era un paesaggio da redimere, anche fotograficamente, e ci siamo bloccati nel tempo e nello spazio: non siamo stai capaci di parlare in termini propositivi, apocalittici, rivoluzionari. Sdegnati, ci siamo e ci stiamo rifugiando nel political correct.
I fotografi che successivamente ci hanno spiegato questo equivoco ce li siamo fatti passare addosso come acqua fresca: ora il discorso diventa più difficile, più tormentato; tutto si avvita sulla miseria, sulle disgrazie e sulla buona, quanto rassegnata, volontà degli abitanti di questa terra.
Questa Terra, e con essa il paesaggio, vera scena teatrale della nostra umanità, va redenta e non solo benedetta dal senso della memoria: nel vuoto di questa redenzione si annida solo il senso tragico della maledizione-
Questo linguaggio potrà apparirti duro ( e te ne chiedo perdono) ma se provi a leggere l’amico Giovanni Chiaramonte “Interno perduto”, o “Sequenza sismica”, Skira, a cura di Filippo Maggia, converrai che i siciliani si sono vestiti di pianto con troppa fretta senza capire quanto era successo e, paradossalmente, affidandosi agli altri per comprenderlo.
Avremo un anno di confronti, di rimeditazioni, di mea culpa ma, spero, anche di nuove immagini dove, ne sono convinto, “non ci sarà nulla di antico sotto il sole”.
Nella storia della fotografia mai ci fu un risultato duraturo ed esemplare come l’esperienza della Farm Security Administration (il solo riflesso che quelle immagini e quei fotografi ha saputo riverberare sulla letteratura e sulla cinematografia statunitense ci dovrebbe far pensare ancora). E i risultati, economicamente e politicamente, ci furono (ad onor del vero ci fu anche una guerra).
©PiP
(il commento trae spunto da: https://laquartadimensionescritti.blogspot.it/2018/01/a-cinquanta-anni-dal-terremoto-del.html)
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