“Ibis, redibis non morieris in bello”

Se si ricerca nel web: “frase celebre della sibilla cumana”, viene fuori in Wikipedia.org che la frase latina “ibis, redibis non morieris in bello” è il responso dato dalla Sibilla ad un soldato andato a consultarla e, come tutti i responsi oracolari, è volutamente ambigua ("sibillina", appunto), offrendo una duplice interpretazione, a seconda di come si vuole usare la punteggiatura. 
Se, infatti, si pone una virgola prima di "non" (ibis, redibis, non morieris in bello), il significato del responso è "andrai, ritornerai e non morirai in guerra", e prefigura un esito positivo della missione. Se, invece, la virgola è spostata dopo la negazione (ibis, redibis non, morieris in bello), il senso è sovvertito nel suo contrario: "andrai, non ritornerai e morirai in guerra".
Nel caso si tratta di articolazioni interpretative correlate a forme raffinate di scrittura. 
In argomento si osserva invece come scritti di taluni critici contemporanei – o presunti tali - sempre più spesso appaiono assolutamente incomprensibili nei costrutti e ambigui nei loro messaggi, che neanche ricordano lontanamente il metodo sibillino; e ciò a prescindere da ogni possibile forma di punteggiatura.
Sono, infatti, sempre più frequenti coloro che, magari chiamati ad esporre in un proprio editoriale periodico in specifiche rubriche, con i loro articoli non riescono a risultare immediati nel comunicare e di facile comprensione. 
Tant’è che il più delle volte viene da chiedersi se, piuttosto che continuare a scrivere tante parole per non dire niente, non sarebbe più felice per loro riporre la penna e cedere il passo a chi è in grado di trasmettere veri messaggi o di proporre idee ai lettori.
Nel leggere la vuotezza contenutistica di certi articoli sembra che taluni “critici” abbiano come intento primario solo quello di autocelebrarsi e, magari ricorrendo a citazioni forzate, risultano intenti a parlare a se stessi, senza però comprendere di ritrovarsi soli. 
Occorrerebbe che chi di dovere quantomeno si assumesse l’onere di dir loro che non basta apporre una firma per certificare contenuti. Destinando ad altri i pochi spazi editoriali disponibili aumenterebbero le possibilità di conoscere nuovi autori o, chissà, magari di favorire la nascita di altre scuole di pensiero.
Secondo voi, nel caso, sarebbe chiedere troppo?
© Essec

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